I tesoretti monetali, ritrovamenti eccezionali

19 novembre 2024 19 novembre 2024

Con il termine tesoretto si indica un particolare ritrovamento che vede la scoperta di una certa quantità di monete in un solo luogo, molto spesso conservate all’interno di un contenitore in materiale non deperibile. Tali monete erano state sicuramente nascoste in un momento di pericolo imminente, quale ad esempio una guerra, con l’intenzione, da parte del proprietario, di tornare a riprenderle in un successivo periodo di calma, cosa che non è mai accaduta. Per questo motivo capita che il tesoretto possa essere rimasto nascosto fino all’epoca moderna. Scoperte fortuite di tesoretti avvengono ancora oggi durante gli scavi archeologici come testimoniano ad esempio i recentissimi ritrovamenti avvenuti nel 2018 a Como o nell’antica città romana di Bedriacum.
Tra le collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Taranto sono conservati numerosi tesoretti di epoche differenti (dall’età greca all’epoca bizantina). Quello conservato nella sala XIII è stato rinvenuto nella città di Taranto nel 1883, ma si sono purtroppo perse ulteriori informazioni circa la localizzazione e le modalità di rinvenimento. Al momento del suo ritrovamento era composto da 1536 monete, di cui 1515 della zecca di Taranto e 21 della zecca di Thurium, la colonia panellenica sorta al posto della città di Sibari nel golfo ionico nel 444 a.C. Nel corso dell’ultimo secolo, parte del tesoretto è andato disperso e numerose monete provenienti da questo contesto fanno oggi parte di collezioni private e museali estere, motivo per cui oggi al MArTA sono conservati soltanto 865 esemplari, tutti riconducibili alla zecca tarantina.
Le monete sono databili a un arco cronologico che va dal 325 a.C. al 228 a.C., ragione per cui si è ipotizzato che le cause per cui il ricco proprietario abbia deciso di nascondere i suoi beni siano riconducibili agli scontri con Roma che coinvolsero la città di Taranto alla fine III secolo a.C. e portarono alla definitiva conquista della colonia greca nel 209 a.C.
In epoca greca il denaro era caratterizzato dal proprio valore intrinseco, dipendeva cioè dal valore del metallo utilizzato – che poteva essere oro, argento o bronzo – e dal peso, di cui si faceva garante la città che lo emetteva. Ogni città inoltre impiegava sulle proprie monete delle immagini specifiche e delle iscrizioni affinché fossero immediatamente riconoscibili. Le immagini impresse sui conii di solito sono strettamente legate all’identità culturale ed economica della città che le emette; così Atene batte monete che rappresentano su un lato la dea Atena e sull’altro una civetta con un ramo d’ulivo, mentre Metaponto, che traeva la sua ricchezza dal vasto territorio agricolo, pone sui suoi stateri una spiga di grano.
Il sistema monetario greco si basava su una moneta d’argento, la dracma, che significa letteralmente “manciata” di sei oboli, termine usato per definire gli spiedi in ferro, utilizzati come moneta di scambio prima della nascita della moneta. Oltre alla dracma e all’obolo, era molto diffuso anche lo statere che corrisponde a due dracme. L’origine del nome va ricollegato infatti al peso che deve essere posto sui piatti della bilancia perché stessero in equilibrio e dunque due dracme.
La moneta più diffusa nella città di Taranto era lo statere in argento caratterizzato sul dritto da un giovane a cavallo in diversi atteggiamenti con simboli e iscrizioni, mentre sul verso era rappresentato l’eroe eponimo Taras, figlio di Poseidone e della ninfa Satyria, oppure l’ecista, fondatore della città, Falanto, a dorso di un delfino.

Nomos in argento – III secolo a.C.
Da Taranto, senza ulteriori dati di rinvenimento.
Primo piano, Sala XIII, vetrina 30.
 

 

 

 

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