La collezione archeologica del MArTA rappresenta un ricchissimo scrigno di testimonianze relative all’antica Taras e alla sua posizione all’interno di circuiti di contatto che travalicano gli stessi mondi greco, magnogreco, italico ed apulo. Chiari esempi di questa ampiezza di relazioni, sia economiche che culturali, sono tre peculiari reperti esposti in vetrina 33, nella sala IV del secondo piano del Museo. Databili alla prima metà del V sec. a.C., nonostante manchino del tutto i dati relativi al loro contesto di rinvenimento, anche se risulta ipotizzabile una loro provenienza dalla necropoli di età classica, i tre oggetti in questione ci sono giunti in stato frammentario, ma non tale da inficiarne l’identificazione delle forme e delle particolari iconografie, e i relativi significati che veicolano. Si tratta di vasi di produzione attica che si distinguono in maniera netta dalla tipica produzione vascolare a figure rosse del periodo. Infatti, i primi due esemplari sulla sinistra appartengono alla classe dei cosiddetti vasi plastici dalla conformazione a testa di africano (ne esistono anche a testa femminile, di menade, di sileno, o bifronti), mentre il reperto sulla destra è un piatto a fondo bianco, decorato anch’esso con l’immagine intera di un uomo africano.
Ma come mai, in ambito greco e magnogreco, ritroviamo iconografie e forme vascolari che esulano dalle classiche forme e riportano iconografie non convenzionali? I due vasi plastici sono pertinenti, come si evince dalle dimensioni e da alcuni confronti con esemplari integri (Musei Vaticani, British Museum, MET), a forme vascolari connesse al simposio e al banchetto, e in ultima analisi alla figura di Dioniso nell’oltretomba, largamente diffuse nei corredi funerari greci: l’uno ad un kantharos, a giudicare dalla lacuna all’altezza dell’orecchio sinistro sul quale doveva innestarsi una delle anse; l’altro ad una oinochoe. Invece, il piatto a fondo bianco è decorato con l’immagine intera di un uomo africano vestito in abiti orientali, stante in piedi dinanzi ad un louterion (bacino lustrale), affiancato da due iscrizioni che riportano il termine ΚΑΛΟΣ.
Da ciò si desume che i greci avessero conoscenza diretta del mondo africano, in particolare delle etnie nilotiche della Nubia mediante l’Egitto faraonico, almeno a partire dall’VIII-VII sec. a.C., testimoniata dall’estremo naturalismo nella resa dei volti dei due vasi plastici in questione. Tutto ciò è riflesso sia nella mitologia che negli eventi storici. Infatti, l’Iliade racconta di Memnone, re etiope (ovvero nubiano), figlio di Eos, alleato dei troiani; oppure il mito racconta di Busiride, re d’Egitto, ucciso da Eracle al ritorno dal giardino delle Esperidi. Storicamente, il contatto diretto con il mondo nubiano è attestato da numerosi elementi: in primo luogo, la presenza di un emporio ellenico nel Delta del Nilo, ovvero Naukratis, sorto e sviluppatori nel corso del VII-VI sec. a.C. durante la XXVI dinastia egizia; inoltre, lo stesso Erodoto, nelle sue Storie, riferisce di una spedizione egiziana guidata dal faraone Psammetico II contro il regno di Nubia (attuale Sudan del Nord), avvenuta nel 592 a.C., il cui esercito era composto anche da mercenari greci, carii e fenici, e che portò alla distruzione della capitale nubiana Napata. Lo stesso esercito persiano di Serse, all’epoca delle guerre persiane, tra i vari reparti, comprendeva contingenti di arcieri nubiani, così come testimoniato dalla raffigurazione in rilievo di una delegazione nubiana su una delle scalinate di accesso all’Apadana di Persepoli. Tutto ciò permette di comprendere come e quanto i greci avessero diretta conoscenza diretta del mondo nilotico e nubiano, potendo ipotizzare anche la stessa presenza di schiavi o mercenari provenienti da quelle aree nell’Atene del V sec. a.C.
Il naturalismo dei tratti somatici dei volti dei due vasi plastici in questione e la stessa resa stilistica del volto di profilo del nubiano sul piatto a fondo bianco, oltre a rimandare ai rilievi di Persepoli prima citati del VI-V sec. a.C., rinviano anche ad iconografie provenienti direttamente dal regno di Nubia, come ad esempio i bassorilievi che raffigurano la coppia reale meroitica, Natakamani e Amanitore, sul pilone del tempio di Apedemak a Naqa, in Sudan, del I sec. d.C.
Il fatto che tre oggetti di produzione attica così particolari si ritrovino a Taranto è prova di una certa predisposizione all’attrazione per tematiche culturali esotiche da parte di una determinata committenza della colonia spartana, peraltro continuativa nel tempo a giudicare da alcuni orecchini in oro e granato a conformazione di testa di africano/nubiano del II sec. a.C., anch’essi esposti in Museo (vetrina 39, SALA XIX, primo piano). La città magnogreca, dunque, risulta essere perfettamente inserita nel sistema di circuiti di scambio, sia economici che culturali, di scala mediterranea per tutto il corso della sua storia antica.
N. 2 frammenti di vasi plastici attici (inv. 4423, 4572) – 500-450 a.C.
Da Taranto, senza ulteriori dati di rinvenimento.
Secondo piano, Sala IV, vetrina 33, 9.1-2.
Piatto attico su fondo bianco (inv. 4424) – 475-470 a.C. circa.
Da Taranto, senza ulteriori dati di rinvenimento.
Secondo piano, Sala IV, vetrina 33, 10.1.